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In caso di licenziamento illegittimo, con reintegra sul posto di lavoro, il datore dovrà pagare il tfr?

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In caso di licenziamento illegittimo, con reintegra sul posto di lavoro, il datore dovrà pagare il tfr?

mercoledì, 03 giugno 2020

L’ordinanza della Cass. civ., n. 9303 del 2020,  ritiene che qualora venisse dichiarato illegittimo il licenziamento, con conseguente reintegra del lavoratore del posto di lavoro, l’azienda non potrà essere condannata anche al pagamento del tfr, in quanto il diritto al trattamento di fine rapporto sorge, a norma dell'art. 2120 c.c., al momento della cessazione del rapporto.

Cass. civ. n. 9303/2020: il caso e la questione di diritto

Il lavoratore, che aveva lavorato con rapporto di lavoro subordinato e veniva, poi, licenziato verbalmente, adiva il Giudice del lavoro del Tribunale di Trani, per rivendicava nei confronti della datrice di lavoro il pagamento di differenze retributive e la reintegra nel posto di lavoro per nullità del licenziamento. Il giudice adito rigettava ogni domanda.

Il lavoratore impugnava la decisione del tribunale davanti alla Corte di appello di Bari, che, accogliendo l'appello del lavoratore, riteneva: 

  1. sussistente la natura subordinata del rapporto di lavoro;

  2. inefficace il licenziamento intimato verbalmente; 

  3. che il datore di lavoro reintegrasse il ricorrente nel posto di lavoro, con ogni conseguenza di ordine economico ex art. 18 della l. 300/1970, non avendo la convenuta provato i presupposti per l'applicabilità della tutela obbligatoria;

  4. legittimo che l’azienda pagasse le differenze retributive, compreso il TFR, sulla base dell'inquadramento nel terzo livello contrattuale ("carpentiere in ferro capace di costruire anche su disegno").

L’azienda propone ricorso in Cassazione, lamentando la violazione dell'art. 2120 c.c., per avere la Corte di appello condannato la società al pagamento del trattamento di fine rapporto, pur avendo ordinato la reintegra dell'appellante nel posto di lavoro. 

I giudici della Cassazione, con ordinanza del 20 maggio 2020, n. 9303,  affermano che il diritto al trattamento di fine rapporto sorge, a norma dell'art. 2120 cod. civ., al momento della cessazione del rapporto ed in conseguenza di essa, essendo irrilevante, al fine di ipotizzare una diversa decorrenza, l'accantonamento annuale della quota del trattamento, che costituisce una mera modalità di calcolo dell'unico diritto che matura nel momento anzidetto, ovvero l'anticipazione sul trattamento medesimo, che è corresponsione di somme provvisoriamente quantificate e prive del requisito della certezza, atteso che il diritto all'integrale prestazione matura, per l'appunto, solo alla fine del rapporto lavorativo.

Infatti, il diritto al trattamento di fine rapporto scaturisce, a norma del comma 1 dell'art. 2120 c.c. (come sostituito dall’art. 1 della l. 297/1982, recante la disciplina del trattamento di fine rapporto) e per come previsto dalla lettera della legge, al momento della cessazione del rapporto di lavoro ed in conseguenza di essa. Ed invero l'uso del termine "quota" con riferimento all'importo della retribuzione annuale "dovuta", lungi dal dare l'idea del frazionamento annuale e dell'acquisizione periodica del diritto, richiama, invece, solo una modalità del calcolo dell'unico diritto al trattamento di fine rapporto, da adoperarsi al momento in cui questo sorge, con la cessazione del rapporto, al fine di determinarne, mediante l'utilizzazione degli altri coefficienti previsti, applicati con riferimento a tutta la durata del rapporto stesso, l'entità complessiva che è solo ed esclusivamente quella finale.

 

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