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Reverse charge errato e diritto alla detrazione

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Imposta sul valore aggiunto

Reverse charge errato e diritto alla detrazione

martedì, 30 aprile 2019

Con sentenza 11 aprile 2019, causa C-691/17, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, affrontando il tema del mantenimento del diritto di detrazione dell’IVA in caso di omesso “reverse charge” previsto per le operazioni effettuate tra soggetti appartenenti allo stesso Paese, ha confermato l’orientamento giurisprudenziale in base al quale l’erronea applicazione dell’IVA ad una operazione soggetta al meccanismo del reverse charge non consente al cliente di esercitare la detrazione, potendo quest’ultimo chiedere il rimborso dell’imposta al fornitore o, se insolvente, direttamente all’Autorità fiscale. 

La questione

La domanda di pronuncia pregiudiziale all’esame della Corte di Giustizia UE, su cui quest’ultima si è pronunciata con sentenza  causa C-691/17 dell’11 aprile 2019, ai sensi dell’art.  267 TFUE, verte sull’interpretazione della Direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, come modificata dalla direttiva 2010/45/UE del Consiglio, del 13 luglio 2010, nonché dei principi di proporzionalità, di neutralità fiscale e di effettività, ed è stata presentata nell’ambito di una controversia che oppone una società all’Amministrazione fiscale ungherese in relazione a una rettifica tributaria imposta alla prima a causa della mancata applicazione delle norme nazionali sul sistema dell’inversione contabile dell’IVA. 

Nella specie, nell’ambito della costruzione di un’autostrada, la società aveva accettato da alcuni fornitori fatture emesse in conformità al regime di tassazione ordinaria e sulle quali era indicata l’IVA. La società aveva pagato le fatture, detratto gli importi indicati dell’IVA, richiedendone poi il rimborso. L’Amministrazione tributaria ungherese ha tuttavia considerato che le operazioni economiche indicate nelle fatture facevano riferimento a un’attività principale di costruzione e, in particolar modo, che avrebbe dovuto essere applicato il regime dell’inversione contabile dell’IVA, in attuazione del quale gli emittenti delle fatture non avrebbero dovuto indicare l’IVA nelle stesse o avrebbero dovuto indicarvi che queste erano soggette al regime dell’inversione contabile.

Ciò posto, la questione è approdata all’esame della competente Autorità giurisdizionale, che ha sottoposto al vaglio pregiudiziale della Corte UE. In particolare, i giudici nazionali ungheresi chiedono se la Direttiva 2006/112 nonché i principi di proporzionalità, di neutralità fiscale e di effettività debbano essere interpretati nel senso che ostano a una prassi dell’autorità tributaria secondo cui, in assenza di sospetti di evasione, tale autorità nega a un’impresa il diritto a detrarre l’IVA che tale impresa, in quanto destinataria di servizi, ha indebitamente corrisposto al fornitore dei servizi stessi sulla base di una fattura che quest’ultimo ha emesso secondo le regole relative al regime di tassazione ordinaria dell’IVA, essendo invece l’operazione soggetta al meccanismo di inversione contabile, senza che l’autorità tributaria: 

  • prima di negare il diritto alla detrazione, esamini se l’emittente di tale erronea fattura potesse rimborsare al destinatario della stessa la somma dell’IVA indebitamente versata e rettificare tale fattura nell’ambito di un procedimento di auto-rettifica, nel rispetto della normativa nazionale applicabile, allo scopo di recuperare l’imposta che questi ha indebitamente versato all’erario, 
  • o decida di rimborsare essa stessa al destinatario della fattura l’imposta che ha indebitamente versato all’emittente della medesima e che quest’ultimo ha, in seguito, indebitamente versato all’erario. 

Il reverse charge 

Si premette che il reverse charge, utilizzato dal legislatore prevalentemente per contrastare fenomeni di evasione, consiste in un’inversione contabile, in deroga alle regole ordinarie del sistema dell’IVA, attraverso la quale l’obbligazione tributaria corrispondente al versamento dell’IVA è posta in capo al destinatario della cessione o prestazione, in luogo del cedente o prestatore.

Infatti, con il meccanismo del reverse charge, debitore dell’IVA è il cessionario/committente anziché il soggetto che emette la fattura. Affinché torni applicabile tale meccanismo entrambi gli operatori devono essere soggetti passivi IVA. Diversamente, qualora il committente sia un privato, l’imposta è dovuta dal cedente o prestatore secondo i criteri ordinari.

Il reverse charge può essere distinto in:

  • reverse charge interno: per determinate tipologie di servizi identificate all’interno dell’art. 17, commi 5 e 6, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (ad esempio subappalto nel settore edile). L’art. 2 del D.L. 23 ottobre 2018, n. 119, convertito con modificazioni dalla legge 17 dicembre 2018, n. 136, ha prorogato fino al 30 giugno 2022 il reverse charge interno per alcune tipologie di operazioni quali ad esempio le cessioni di telefoni cellulari, console da gioco, tablet PC e laptop, e i trasferimenti di quote di emissioni di gas a effetto serra;
  • reverse charge in ambito comunitario ex art. 17, comma 2, D.P.R. n. 633/1972: per determinate operazioni effettuate in ambito comunitario tra soggetto passivo IVA “stabilito” in Italia ed altro soggetto passivo IVA “stabilito” in altro Paese della UE. 

In sostanza, il reverse charge “interno” presuppone che l’operazione, rientrante tra quelle tassativamente previste, sia effettuata tra due soggetti passivi IVA italiani ed implica che il destinatario del bene o servizio sia il debitore della relativa imposta. 

Il reverse charge “esterno” presuppone che l’operazione, territorialmente rilevante, sia effettuata da un soggetto passivo IVA non stabilito in Italia nei confronti di uno stabilito nel territorio nazionale ed implica che quest’ultimo sia il debitore della relativa imposta. 

Come prima accennato, la Direttiva UE n. 2018/1695 del Consiglio, del 6 novembre 2018 ha prorogato, nei confronti dei Paesi della UE, dal 31 dicembre 2018 al 30 giugno 2022 il periodo di applicazione del meccanismo, facoltativo, del reverse charge interno in merito a determinate operazioni a rischio frodi IVA, nonché del meccanismo di reazione rapida contro le frodi in materia di IVA (Quick Reaction Mechanism – c.d. QRM). La proroga, per determinate operazioni, del reverse charge interno è stata da ultimo recepita dall’Italia in sede di conversione in legge del D.L. n. 119/2018 (c.d. collegato alla Manovra 2019). 

In merito al funzionamento, il cedente/prestatore soggetto passivo IVA emette regolare fattura non indicando l’IVA in quanto operazione soggetta a reverse charge. Invece, il cessionario/committente soggetto passivo IVA procede all’integrazione della fattura ricevuta riportando la corretta aliquota IVA.

Inoltre, il cessionario/committente deve registrare il documento integrato con IVA sia sul registro IVA vendite che in quello degli acquisti.

Nel reverse charge l’obbligo di emissione del documento - senza addebito dell’IVA - è a carico del cedente o prestatore, cioè del soggetto che pone in essere l’operazione.

I soggetti privi di partita IVA, ovvero, privati sono esclusi dal reverse charge. Quindi, ad esempio, sono escluse le operazioni poste in essere da un soggetto passivo IVA nei confronti di un privato (soggetto sprovvisto di partita IVA ovvero che non la utilizza ai fini dell’operazione di acquisto).

Le fatture emesse senza l’esposizione dell’IVA mediante applicazione del reverse charge sono, a norma dell’art. 6 della Tabella annessa al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 642, esenti da imposta di bollo.

Per il corretto funzionamento del meccanismo del reverse charge è necessario rispettare determinati obblighi formali e sostanziali, il cui inadempimento può condurre a diverse ipotesi sanzionatorie. Al riguardo, nell’ottica di un sistema fiscale più equo, è stato riformato il sistema sanzionatorio tributario, in attuazione dei principi di tassatività e di proporzionalità delle sanzioni rispetto all'effettiva gravità dei comportamenti. 

La disciplina sanzionatoria del sistema dell'inversione contabile, contenuta nell'art. 6, commi da 9-bis a 9-bis.3, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, come da ultimo modificato dal D.Lgs.  24 settembre 2015, n. 158.

In linea generale, in caso di errata applicazione del meccanismo del reverse charge torna applicabile una sanzione da euro 250 ad euro 10.000 (art. 6, commi 9-bis.1 e 9-bis.2, D.Lgs. n. 471/1997).

In caso di omesso reverse charge la sanzione si applica nella misura da euro 500 ad euro 20.000, ferma restando la possibilità di procedere a ravvedimento operoso (art. 6, comma 9-bis, D.Lgs. n. 471/1997). 

Reverse charge e fattura elettronica

Occorre poi chiedersi come si gestiscono le operazioni in reverse charge con l’introduzione dell’obbligo della fattura elettronica (ex art. 1, comma 3, D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 127).

A questo quesito ha risposto l’Agenzia delle Entrate con la Circolare 2 luglio 2018, n. 13/E e con le FAQ del 27 novembre 2018, specificando che occorre distinguere tra inversione contabile esterna e interna.

Per le operazioni in reverse charge esterno, laddove non è stata ricevuta una fattura elettronica oppure una bolletta doganale, i soggetti passivi devono compilare e trasmettere telematicamente all’Agenzia delle Entrate il c.d. esterometro (art. 1, comma 3-bis, D.Lgs. n. 127/2015, come introdotto dalla legge 27 dicembre 2017, n. 205).

L’esterometro deve essere effettuato entro l’ultimo giorno del mese successivo a quello della data di ricezione del documento comprovante l’operazione, e in questo caso consiste in una dichiarazione di tutti i dati relativi a tutti gli scambi con soggetti non stabiliti nel territorio italiano.

Per il reverse charge interno, il destinatario riceverà una fattura elettronica riportante la natura “N6” (inversione contabile), a fronte del quale la legge italiana prevede che venga fatta un’integrazione con i dati relativi all’IVA (aspetto questo non formalmente modificato dal legislatore italiano con l’introduzione della fattura elettronica). 

L’Agenzia delle Entrate, con la richiamata Circolare n. 13/E/2018 e con le FAQ, ha chiarito che si può emettere un’autofattura, ovvero un altro documento che riporti sia i dati integrativi dell’IVA sia gli estremi della fattura originaria, ai fini dell’integrazione IVA della fattura ricevuta. Questa autofattura può essere facoltativamente inviata al Sistema di Interscambio e, nel caso, conservata elettronicamente nel servizio offerto dall’Agenzia stessa.

Nel caso si emetta un’autofattura nel formato XML da trasmettere allo SDI, occorre indicare il tipo documento TD01 pari alla fattura e non il TD20 dell’autofattura, valido solo nel caso in cui venga emessa una fattura elettronica al fine di evitare le sanzioni amministrative per la mancata emissione della fattura.

In realtà, in tema di reverse charge e fattura elettronica non c’è molta chiarezza, nonostante i due interventi dell’Agenzia delle Entrate, atteso che una fattura elettronica, una volta emessa, non è più modificabile e quindi non è più integrabile. A tal fine sembra possa essere considerato corretto, per l’applicazione del reverse charge interno, comportarsi come prima dell’avvento della fattura elettronica e cioè procedere alla semplice registrazione contabile del documento integrato, dando così evidenza dell’integrazione nelle scritture contabili (registri IVA e libro giornale) e portando in conservazione il solo documento di acquisto originario, non integrato. 

Normativa comunitaria

Nel decidere la vertenza, con la sentenza causa C-647/17 in esame, la Corte di Giustizia giunge alla conclusione che la prassi adottata dall’Amministrazione tributaria ungherese nella fattispecie in esame, in relazione al diniego della detrazione IVA, sia conforme alla relativa disciplina dell’unione Europea, come di seguito esposta.

L’art. 167 della Direttiva 2006/112 dispone che “Il diritto a detrazione sorge quando l’imposta detraibile diventa esigibile”.

L’art. 168 della medesima Direttiva prevede che “Nella misura in cui i beni e i servizi sono impiegati ai fini di sue operazioni soggette ad imposta, il soggetto passivo ha il diritto, nello Stato membro in cui effettua tali operazioni, di detrarre dall’importo dell’imposta di cui è debitore gli importi seguenti: a) l’IVA dovuta o assolta in tale Stato membro per i beni che gli sono o gli saranno ceduti e per i servizi che gli sono o gli saranno resi da un altro soggetto passivo;”.

L’art. 178 della Direttiva così recita:

«Per poter esercitare il diritto a detrazione, il soggetto passivo deve soddisfare le condizioni seguenti:

f) quando è tenuto ad assolvere l’imposta quale destinatario o acquirente in caso di applicazione degli articoli da 194 a 197 o dell’articolo 199, adempiere alle formalità fissate da ogni Stato membro».

Ai sensi dell’art. 199, paragrafo 1, della Direttiva, «Gli Stati membri possono stabilire che il debitore dell’imposta sia il soggetto passivo nei cui confronti sono effettuate le seguenti operazioni: a) prestazioni di servizi di costruzione, inclusi i servizi di riparazione, pulizia, manutenzione, modifica e demolizione relative a beni immobili nonché la consegna di lavori immobiliari, considerata cessione di beni ai sensi dell’articolo 14, paragrafo 3;».

L’art. 226 della Direttiva prevede:

«Salvo le disposizioni speciali previste dalla presente direttiva, nelle fatture emesse a norma degli articoli 220 e 221 sono obbligatorie ai fini dell’IVA soltanto le indicazioni seguenti:

11-bis) se l’acquirente/destinatario è debitore dell’imposta, la dicitura «inversione contabile».

Infine, l’art. 226 della Direttiva 2006/112, nella versione anteriore all’entrata in vigore della direttiva 2010/45, così disponeva:

«Salvo le disposizioni speciali previste dalla presente direttiva, nelle fatture emesse a norma degli articoli 220 e 221 sono obbligatorie ai fini dell’IVA soltanto le indicazioni seguenti:

11)  in caso di esenzione o quando l’acquirente o il destinatario è debitore dell’imposta, il riferimento alla disposizione applicabile della presente direttiva o alla disposizione nazionale corrispondente o ad altre informazioni che indichino che la cessione di beni o la prestazione di servizi è esente o soggetta alla procedura dell’inversione contabile;».

Valutazioni della Corte di Giustizia

Così riferito il quadro normativo di riferimento dell’unione inerente la materia in trattazione, la Corte UE, il giudice comunitaria esamina preliminarmente, il sistema del regime di inversione contabile precisando che occorre dare risposta alle questioni poste in relazione all’interpretazione del principio di proporzionalità nonché dei principi di neutralità fiscale e di effettività, verificando in primo luogo se sia conforme a dette disposizioni e a detti principi il fatto che il diritto alla detrazione dell’IVA sia negato ad un destinatario di servizi che si trovi in una situazione come quella della società ungherese in causa.

Rammenta poi la Corte UE che, in applicazione del regime dell’inversione contabile, non avviene alcun pagamento dell’IVA tra il prestatore e il destinatario di servizi, essendo quest’ultimo debitore, per le operazioni effettuate, dell’IVA a monte, pur potendo, in linea di principio, detrarre questa stessa imposta, cosicché nulla è dovuto all’Amministrazione tributaria.

In relazione alle modalità di esercizio del diritto alla detrazione dell’IVA in una procedura di inversione contabile di cui all’art. 199, paragrafo 1, della Direttiva 2006/112, un soggetto passivo che, quale destinatario di un servizio, è debitore dell’IVA corrispondente a quest’ultimo, non è tenuto a essere in possesso di una fattura redatta conformemente ai requisiti formali di tale direttiva per poter esercitare il suo diritto a detrazione, e deve unicamente osservare le formalità stabilite dallo Stato membro interessato nell’esercizio della facoltà di scelta offerta allo stesso dall’art. 178, lettera f), di detta Direttiva. 

Nella fattispecie in esame, risulta che le fatture non recavano le menzioni obbligatorie richieste dall’art. 169, paragrafo 1, lettera k), della legge nazionale ungherese sull’IVA e che la società ha erroneamente versato l’importo dell’IVA, impropriamente menzionata in tali fatture, agli emittenti delle stesse, mentre, in applicazione del regime dell’inversione contabile, essa avrebbe dovuto, in quanto beneficiaria dei servizi, versare direttamente l’IVA alle autorità tributarie, in attuazione dell’art. 142, paragrafo 1, lettera b), di detta legge.

Pertanto, per tali fatture non sono risultati assolti sia gli obblighi formali previsti dalla normativa nazionale che ha trasposto detta direttiva, sia l’obbligo sostanziale del versamento dell’IVA alle autorità tributarie da parte del soggetto passivo che richiede la detrazione.

Per effetto di tali violazioni veniva quindi impedito all’autorità tributaria ungherese di verificare la corretta applicazione del regime dell’inversione contabile, determinando così un rischio di perdita di gettito fiscale per lo Stato membro interessato.

Pertanto, poiché la società non aveva rispettato un obbligo sostanziale del regime dell’inversione contabile e l’IVA che aveva versato ai fornitori di servizi non era dovuta, la società non poteva avvalersi del diritto alla detrazione dell’IVA. Inoltre, in relazione all’eventuale esistenza di un obbligo per l’autorità tributaria di verificare che la rettifica delle fatture interessate e il recupero da parte degli emittenti di tali fatture dell’imposta indebitamente versata all’erario siano legalmente possibili, la Corte di Giustizia rileva che la controversia riguarda il diniego da parte delle Autorità tributarie di una domanda di detrazione dell’IVA, formulata dal destinatario di dette fatture. 

Il giudice europeo precisa altresì che la possibilità per gli emittenti di tali fatture di procedere alla rettifica delle stesse o di recuperare l’imposta indebitamente corrisposta all’erario è un aspetto irrilevante per verificare la conformità al diritto comunitario del diniego da parte dell’Autorità tributaria della detrazione dell’IVA, formulata dal destinatario delle fatture interessate. Pertanto, nei limiti in cui il sistema ungherese consente alla società di recuperare l’IVA che essa ha indebitamente versato agli emittenti delle fatture, l’Autorità tributaria non è tenuta, prima di respingere la domanda di detrazione dell’IVA, né a verificare se i predetti emittenti possono rettificare tali fatture sulla base della normativa nazionale né a ingiungere una simile rettifica. 

Conclusioni 

Per quanto esposto, nella fattispecie di cui alla causa C-691/17 in esame, la Corte UE perviene quindi alla conclusione che la Direttiva 2006/112 nonché i principi di neutralità fiscale e di effettività devono essere interpretati nel senso che non ostano a una prassi dell’autorità tributaria secondo la quale, in assenza di sospetti di evasione, detta autorità nega a un’impresa il diritto a detrarre l’IVA che tale impresa, in quanto destinataria di servizi, ha indebitamente versato al fornitore di detti servizi sulla base di una fattura che quest’ultimo ha emesso secondo le regole relative al regime ordinario dell’IVA, mentre l’operazione pertinente era soggetta al meccanismo di inversione contabile, senza che l’autorità tributaria: 

  1. prima di negare il diritto alla detrazione, esamini se l’emittente di tale erronea fattura potesse rimborsare al destinatario della stessa l’importo dell’Iva indebitamente versata e rettificare suddetta fattura nell’ambito di un procedimento di auto-rettifica, conformemente alla normativa nazionale applicabile, allo scopo di recuperare l’imposta che ha indebitamente versato all’erario, o 
  2. decida di rimborsare essa stessa al destinatario della fattura in parola l’imposta che ha indebitamente versato all’emittente della medesima e che quest’ultimo ha, in seguito, indebitamente versato all’erario.

Tali principi richiedono, tuttavia, nel caso in cui il rimborso, da parte del fornitore di servizi al destinatario degli stessi, dell’IVA indebitamente fatturata risulti impossibile o eccessivamente difficile, in particolare in caso di insolvenza del venditore, che il destinatario di servizi sia legittimato ad agire per il rimborso direttamente nei confronti dell’autorità tributaria. 

Osservazioni finali

Con la sentenza causa C-691/17, la Corte di Giustizia, come si è visto, conferma l’orientamento giurisprudenziale in base al quale l’erronea applicazione dell’IVA ad una operazione soggetta al meccanismo del reverse charge non consente al cliente di esercitare la detrazione, potendo quest’ultimo chiedere il rimborso dell’imposta al fornitore o, se insolvente, direttamente all’Autorità fiscale.

Lo stesso principio è stato espresso anche nelle sentenze 6 febbraio 2014, causa C-424/12 e 26 aprile 2017 causa C-564/15.

Nelle pronunce considerate, la fattura emessa dal fornitore è errata, in quanto contiene l’addebito dell’imposta per una operazione che vede come debitore del tributo il destinatario del documento.

In linea teorica, il cliente, in tale situazione, potrebbe ritenere che la detrazione sia comunque ammessa siccome quest’ultima, per le operazioni soggette ad inversione contabile, prescinde dal possesso di una fattura formalmente regolare, ma tale tesi non è accolta dal giudice eurounitario.

Nell’esegesi effettuata dalla Corte di Giustizia, viene innanzitutto osservato che, per le operazioni soggette ad inversione contabile, l’art. 178, lettera f), della Direttiva 2006/112/CE non richiede, ai fini dell’esercizio della detrazione, il possesso di una fattura redatta in conformità ai requisiti formali previsti dalla stessa Direttiva, limitandosi a prevedere che il cliente deve a tal fine “adempiere alle formalità fissate da ogni Stato membro”.

Dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia si desume che l’entità delle formalità stabilite dallo Stato membro interessato, che il soggetto passivo deve osservare per poter esercitare la detrazione, non può oltrepassare quanto è strettamente necessario per controllare la corretta applicazione della procedura di inversione contabile e per garantire la riscossione dell’IVA.

Spostando l’attenzione sulla natura dell’obbligo di reverse charge, la Corte di Giustizia ribadisce che, in base al principio di neutralità fiscale, la detrazione deve essere riconosciuta a condizione che siano rispettati i requisiti sostanziali.

Nel caso all’attenzione dei giudici eurounitari, l’errore commesso dal fornitore in sede di fatturazione – vale a dire l’addebito dell’imposta e, conseguentemente, la mancata indicazione nel documento della dicitura “inversione contabile” – assume natura esclusivamente formale e, quindi, non incide sull’esercizio della detrazione; quest’ultimo deve però ritenersi precluso perché non risulta soddisfatto il requisito sostanziale previsto per le operazioni soggette ad inversione contabile, cioè l’applicazione dell’imposta da parte del cliente in conformità all’art.  199 della Direttiva 2006/112/CE.

La detrazione, nell’ipotesi considerata, risulta in ogni caso preclusa sulla base del principio, di portata generale, in base al quale l’esercizio del diritto in esame è limitato alle imposte dovute, cioè a quelle corrispondenti ad un’operazione soggetta a IVA (v. Corte di Giustizia, 13 dicembre 1989, causa C-342/87; 19 settembre 2000, causa C-454/98).

L’IVA che il cliente ha versato al fornitore non è dovuta e, quindi, la detrazione non spetta.

Circa i rimedi riconosciuti dalla giurisprudenza unionale per garantire la tutela dei principi di neutralità e di effettività, dalle pronunce richiamate si desume che l’erroneo versamento dell’imposta da parte del fornitore, anziché dal cliente, non esclude il diritto dell’erario di pretendere da quest’ultimo, cioè dal soggetto che si considera debitore d’imposta per l’operazione soggetta ad inversione contabile, il riversamento dell’IVA illegittimamente assolta dalla controparte.

A seguito, tuttavia, dell’indetraibilità dell’imposta pagata a titolo di rivalsa al fornitore, i principi di neutralità e di effettività esigono che il cliente possa recuperare in sede civilistica quanto indebitamente corrisposto alla controparte, con possibilità, a sua volta, per il fornitore, di chiedere all’Autorità fiscale la restituzione dell’imposta illegittimamente versata.

Dal lato del cliente, il limite della descritta modalità di recupero dell’imposta è dato dalla situazione di insolvenza in cui può eventualmente trovarsi il fornitore. Nei casi in cui il rimborso al cliente sia impossibile o eccessivamente difficile, il giudice comunitario consente al medesimo di indirizzare la domanda di restituzione direttamente all’autorità fiscale.

In particolare, il profilo sanzionatorio è stato esaminato dalla sopra citata sentenza causa C-564/15, ove si è affermato che il principio di proporzionalità impedisce alla normativa nazionale di applicare, nei confronti del cliente, la sanzione del 50% dell’imposta dovuta, in assenza di perdita di gettito e di indizi di frode fiscale. Di diverso avviso, l’Avvocato generale, che nelle conclusioni presentate il 10 novembre 2016, ha ritenuto che la sanzione in esame fosse legittima, siccome la legislazione nazionale sembra consentire la graduazione della sanzione sulla base degli elementi specifici del caso concreto, rispettando così il principio di proporzionalità come interpretato dalla giurisprudenza comunitaria (v. Corte di Giustizia 20 giugno 2013, causa C-259/12).  

Errata applicazione dell'imposta  

Per quanto concerne la legislazione italiana riguardo l’errata applicazione dell'imposta nel modo ordinario anziché mediante il sistema dell'inversione contabile, l’art. 6, comma 9-bis.1, del D.Lgs. n. 471/1997, disciplina la specifica ipotesi di "irregolare assolvimento del tributo" che si verifica quando l'operazione doveva essere assoggettata al meccanismo dell'inversione contabile ma, per errore, è stata oggetto di applicazione dell'imposta ordinaria. È, quindi, il caso in cui il cedente o prestatore, pur in presenza dei requisiti prescritti per l'applicazione dell'inversione contabile, ha erroneamente emesso fattura con IVA registrandola ai sensi dell'art. 23 del D.P.R. n. 633/1972. 

Il citato comma 9-bis.1 prevede che se - in presenza dei requisiti prescritti per l'applicazione dell'inversione contabile - l'imposta, seppure in modo irregolare (cioè con il sistema ordinario anziché in reverse charge), è stata comunque assolta dal cedente o prestatore per effetto dell'avvenuta registrazione, di cui all'art. 23 del D.P.R. n. 633/1972, con conseguente confluenza nella liquidazione di competenza, non occorre che il cessionario o committente regolarizzi l'operazione ed è fatto salvo il diritto alla detrazione. Per tale irregolarità, al cessionario o committente, debitore d'imposta, è applicata una sanzione in misura fissa da un minimo di 250 euro fino a un massimo di 10.000 euro. Del pagamento di tale sanzione è responsabile, in solido, il cedente o prestatore. 

In pratica, circa il momento in cui si realizza la violazione, la sanzione compresa tra 250 euro e 10.000 euro è dovuta in base a ciascuna liquidazione (mensile o trimestrale) e con riferimento a ciascun fornitore. La diversa interpretazione secondo cui tale sanzione si applica per ogni singola fattura ricevuta da parte di ciascun fornitore, sarebbe, infatti, in contrasto con la ratio delle disposizioni – spiega l’Agenzia delle Entrate nella Circolare 11 maggio 2017, n. 16/E -, volte a punire con una sanzione di lieve entità, proporzionale alla gravità della condotta, le violazioni dell'inversione contabile. 

Come previsto espressamente dalla norma, infine, il cessionario o committente è punito con la più grave sanzione proporzionale nella misura compresa tra il novanta e il centoottanta per cento dell'imposta, di cui all'art. 6, comma 1, se l'applicazione dell'IVA in modo ordinario anziché con l'inversione contabile è stata determinata da una finalità di evasione o frode di cui è provata la consapevolezza del cessionario o committente. 

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