Per i servizi fatturati, ma non prestati ad una Università, quest’ultima può chiedere al fornitore di emettere una nota di variazione in diminuzione dell’imponibile e dell’imposta entro un anno dall’emissione delle relative fatture. Laddove si tratti di acquisti di beni/servizi utilizzati sia nell’attività commerciale, sia in quella istituzionale, l’imposta che può essere rettificata è quella determinata adottando lo stesso criterio di ripartizione proporzionale con cui è stata operata la detrazione relativa all’attività commerciale.
A chiarirlo è l’Agenzia delle Entrate nella risposta all’interpello n. 436 del 25 agosto 2022, relativo al caso esposto da una Università che ha stipulato con una società un contratto attraverso il quale ha affidato, nella veste di committente, alla stessa società la gestione di un complesso di servizi (energetici e multiservizi tecnologici) a fronte di specifici corrispettivi.
A seguito di ritardi nella voltura dei contratti, l’Università ha sostenuto direttamente i costi relativi alla fornitura dei servizi resi dai fornitori uscenti, ma la società ha fatturato i canoni, con il meccanismo dello split payment, dalla data di decorrenza del contratto di concessione, a prescindere dall’erogazione effettiva dei servizi.
Il dubbio interpretativo dell’Università riguarda il trattamento da applicare, agli effetti dell’IVA, al rimborso della somma a credito vantata nei confronti della società.
Fermo restando che, in assenza del presupposto oggettivo, l’Università non è tenuta ad emettere alcuna fattura né nota di addebito, in quanto la stessa non effettua alcuna operazione (cessione di beni e/o prestazione di servizi) nei confronti della società, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che l’Università può chiedere a quest’ultima di variare in diminuzione la base imponibile e l’IVA relativa alle fatture emesse al più tardi entro un anno dall’errore commesso, ovvero dalla data di emissione dei documenti da rettificare.
Al riguardo, l’art. 26, comma 2, del D.P.R. n. 633/1972 stabilisce che, se un’operazione per la quale sia stata emessa fattura, successivamente alla registrazione, viene meno in tutto o in parte o se ne riduce l’ammontare imponibile in conseguenza di dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili, il cedente o prestatore ha diritto di portare in detrazione l’imposta corrispondente alla variazione, annotandola nel registro degli acquisti.
La disposizione, in ossequio al principio di neutralità, è finalizzata ad evitare che i creditori restino incisi dell’IVA versata all’Erario per la quale non ottengono il pagamento da parte del debitore.
La detrazione è subordinata all’emissione di una nota di variazione in diminuzione che, in base al comma 3 del medesimo art. 26 del D.P.R. n. 633/1972, non può essere emessa dopo un anno dall’effettuazione dell’operazione nel caso in cui gli eventi previsti dal comma 2 si verifichino in dipendenza di un sopravvenuto accordo tra le parti o, come nel caso di specie, nell’ipotesi di rettifica di inesattezze della fatturazione che abbiano dato luogo all’applicazione dell’art. 21, comma 7, del D.P.R. n. 633/1972 e, quindi, laddove sia stata emessa fattura per operazioni inesistenti o indicati in fattura corrispettivi delle operazioni o le imposte relative in misura superiore a quella reale.
Con riferimento all’importo oggetto di variazione, il corrispettivo oggetto di rettifica è quello indicato nelle fatture emesse dalla società per le forniture non eseguite, oltre alla relativa IVA.
Trattandosi di acquisti promiscui, ancorché operati prevalentemente nell’ambito della sfera istituzionale, l’imposta rettificata può essere recuperata adottando lo stesso criterio di ripartizione proporzionale con cui è stata operata la detrazione relativa all’attività commerciale con riferimento all’originario importo fatturato.