Non commette il reato di violazione della disciplina di cui all’art. 4 legge 20 maggio 1970, n. 300 (c.d. “statuto dei lavoratori”) chi, al solo fine di tutelare il patrimonio aziendale, installa videocamere sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate o di autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro, purchè da tale installazione non derivi un controllo significativo sul comportamento dei lavoratori in azienda.
Con tale arresto, la Corte di Cassazione [Sentenza n. 3225/2021] ha cassato con rinvio la decisione dei giudici di Viterbo che, di diverso avviso, avevano condannato penalmente, ai sensi dell’art. 38 dello Statuto dei lavoratori, un imprenditore che, senza il preventivo accordo con le rappresentanze sindacali e senza l’autorizzazione dell’ispettorato del lavoro, aveva installato nel proprio negozio un impianto di videosorveglianza a seguito di furti.
L’odierna interpretazione della Cassazione dà una lettura restrittiva circa l’ambito di applicazione dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori.
I giudici di legittimità, infatti, ritengono che debba escludersi la configurabilità del reato previsto all’art. 38 dello Statuto dei lavoratori riferito alla violazione della disciplina di cui all'art. 4 legge 20 maggio 1970, n. 300, quando l’impianto audiovisivo o di controllo a distanza, installato sul luogo di lavoro senza accordo con le rappresentanze sindacali legittimate o privo dell’autorizzazione dell'Ispettorato del Lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre, però, che il suo utilizzo non comporti un controllo considerevole sull'ordinario svolgimento dell'attività lavorativa dei dipendenti o debba restare necessariamente "riservato" per permettere di accertare gravi condotte illecite degli stessi.
Ma andiamo con ordine per meglio comprendere le argomentazioni della Cassazione.
Le disposizioni normative
L'art. 171 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, come novellato dall'art. 15, comma 1, lett. f), d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101 prevede che: «La violazione delle disposizioni di cui agli articoli 4, comma 1, e 8 della legge 20 maggio 1970, n. 300, è punita con le sanzioni di cui all'articolo 38 della medesima legge».
L'art. 38 della legge n. 300 del 1970, a seguito delle modifiche formulate dall'art. 179 d.lgs. n. 196 del 2003, invece stabilisce che: «Le violazioni degli articoli 2, 5, 6 e 15, primo comma, lettera a), sono punite, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, con l'ammenda da euro 154 a euro 1.549 o con l'arresto da 15 giorni ad un anno».
E’ chiaro, pertanto, che chiunque violi la disciplina di cui all'art. 4 legge n. 300 del 1970 (quindi installa videocamere senza il previo accordo sindacale o la preventiva autorizzazione dell’ispettorato del lavoro), si macchia di una condotta penalmente rilevante sulla base di quanto disposto dall'art. 171 d.lgs. n. 196 del 2003, nel testo attualmente in vigore successivo alla riforma di cui al D.Lgs. n. 101 del 2018, il quale rimanda all'art. 38 della legge n. 300 del 1970 per la determinazione delle sanzioni applicabili.
Gli orientamenti giurisprudenziali
Queste le norme. Nell’interpretare la disposizione di cui all’art. 4 citato, occorre però tenere presenti anche gli orientamenti della giurisprudenza che si è espressa sull’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, anche prima delle riforme allo stesso apportate dall'art. 23, comma 1, d.lgs. 14 settembre 2016, n. 151, e successivamente dall'art. 5, comma 2, d.lgs. 24 settembre 2016, n. 185, i quali articoli, ricordano i giudici, non modificano nella sostanza la ratio dell’art. 4, ed invero, la condotta vietata era ed è tuttora, l’installazione degli impianti audiovisivi e degli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, che possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale, in assenza di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate o di autorizzazione dell'Ispettorato del Lavoro.
Secondo tale giurisprudenza, dal combinato disposto degli artt. 4 e 38 dello Statuto dei lavoratori e 114 e 171 del d.lgs. n. 196 del 2003, si deduce che è vietato anche il solo potenziale controllo dei lavoratori a mezzo di impianti di videosorveglianza installati in azienda; si tratta, dunque, di un reato di pericolo, per la concretizzazione del quale si è ritenuto non essere necessaria neanche la verifica della funzionalità dell'impianto né il concreto utilizzo dello stesso (cfr., in particolare Sez. 3, n. 45198 del 07/04/2016, e Sez. 3, n. 4331 del 12/11/2013).
Il necessario equilibrio tra opposti interessi in gioco
Ad ogni modo, «ai fini dell'operatività del divieto di utilizzo di apparecchiature per il controllo a distanza dell'attività dei lavoratori ex L. n. 300 del 1970, art. 4, è necessario che tale controllo riguardi (direttamente o indirettamente) l'attività lavorativa, mentre sono esclusi dall'ambito di applicazione della norma i controlli diretti ad accertare condotte illecite del lavoratore (i cosiddetti controlli difensivi)» (Cass. Sez. 3, n. 8042 del 15/12/2006).
Tali ultime considerazioni si rendono necessarie per contemperare gli interessi in gioco, entrambi di natura costituzionale, da un lato quello del lavoratore alla riservatezza, dall’altro quello del datore di lavoro al libero esercizio dell’attività imprenditoriale.
Una esegesi questa che risulta del resto conforme ai canoni interpretativi indicati dalla CEDU, secondo cui nell'uso degli strumenti di controllo, deve individuarsi un giusto equilibrio fra i contrapposti diritti sulla base dei principi della "ragionevolezza" e della "proporzionalità" (cfr. Corte EDU, 12/01/2016).
Va inoltre precisato che il testo della disposizione di cui all’art. 4 prevede la necessità di un preventivo accordo con le organizzazioni sindacali, o di una preventiva autorizzazione dell'Ispettorato del Lavoro, quando derivi «anche» la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori.
Dato ciò, il disposto normativo non pare riferibile ad impianti che possano controllare in via del tutto occasionale l'attività del singolo dipendente, come, ad esempio, potrebbero essere, almeno tendenzialmente, quelli puntati sulla cassaforte o sugli scaffali; del resto, non apparirebbe equo, scrivono i giudici di legittimità, nei casi in cui si verificano condotte illecite sanzionabili penalmente o con il licenziamento, concedere al lavoratore una tutela alla sua "persona" maggiore di quella riconosciuta a terzi esterni all'impresa.
La parola al giudice di merito
Queste le motivazioni per cui la Cassazione ha ritenuto opportuno interpretare in maniera restrittiva l’ambito di applicazione della fattispecie di reato prevista dall’art. 38 dello Statuto dei lavoratori nel caso di violazione dell’art. 4 dello Statuto medesimo, ma il Collegio ha anche precisato che una tale interpretazione, che limita l’operatività dell’art. 4, non deve comunque dare adito ad applicazioni allargate.
Resta compito del giudice di merito accertare, nel caso concreto, se l'installazione del sistema di videosorveglianza sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, e, in caso di risposta affermativa, se l'utilizzo dell'impianto implichi un controllo non occasionale sulla quotidiana esecuzione dell'attività lavorativa dei dipendenti, oppure se deve rimanere necessariamente "riservato" per permettere di indagare su gravi condotte illecite perpetrate dagli stessi lavoratori.