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Se non ci sono danni diretti, non si può agire contro gli amministratori

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Se non ci sono danni diretti, non si può agire contro gli amministratori

venerdì, 30 maggio 2025

Non si può esperire l’azione diretta di responsabilità contro gli amministratori, se l’offesa costituisce un riflesso del danno sul patrimonio sociale.

Questo quanto ha stabilito la Corte di Cassazione che, con l’ordinanza n. 14265 del 28 maggio 2025, ha respinto il ricorso di due società che avevano agito contro una società di revisione contabile, cui era stato assegnato il compito di verificare la contabilità di una terza società fallita, lamentando di essere state spinte a sottoscrivere un contratto, affidandosi alla certificazione dei bilanci, risultata poi alterata. E quindi chiedevano di accertare la responsabilità diretta del revisore e la sua conseguente condanna al risarcimento del danno.

I giudici di primo e secondo grado avevano disatteso la domanda attorea, ritenendo che non si fosse verificato un danno diretto sul patrimonio della società fallita, ma che i comportamenti del revisore avevano provocato un danno ai creditori.

Le società, quindi, ricorrono alla Cassazione, sostenendo che non si era trattato di un danno provocato dalla mala gestio degli amministratori, bensì dal fatto che i revisori avevano indotto in errore le ricorrenti che si erano affidate a bilanci poi risultati falsi, spingendole alla firma di contratti che altrimenti non avrebbero sottoscritto.

La Corte di Cassazione ha però precisato la portata dell’articolo 2395 c.c. il quale (in linea peraltro con un orientamento costante della giurisprudenza di legittimità), richiede che, per esperire l’azione individuale di responsabilità contro l’amministratore, il comportamento doloso o colposo dell'amministratore medesimo, posto in essere tanto nell'esercizio dell'ufficio quanto al di fuori delle correlate incombenze, deve aver determinato un danno direttamente sul patrimonio del socio o del terzo (Cass. Sez., Ordinanza n. 9206 del 20/05/2020), risultando il terzo (o il socio) legittimato, anche dopo il fallimento della società, all'esperimento dell'azione di natura aquiliana per ottenere il risarcimento dei danni subiti nella propria sfera individuale, in conseguenza di atti dolosi o colposi compiuti dall'amministratore, solo quando il nocumento riguardi direttamente la sua sfera patrimoniale e non sia un mero riflesso del pregiudizio che abbia colpito l'ente - ovvero il ceto creditorio – per effetto della cattiva gestione.

Funzione dell’avverbio “direttamente”, continuano i giudici, contenuto nella disposizione di cui all’articolo 2395 c.c., è quella di operare una selezione all'interno dell'insieme delle posizioni soggettive che possono essere danneggiate dalla condotta degli amministratori - idonea a determinare, sulla base del nesso di causalità c.d. "materiale" (artt. 40 e 41 c.p.), una lesione di tali posizioni comunque qualificabile in tutti i casi come "danno-evento" - permettendo al singolo socio o al terzo, la possibilità di agire per il danno(-evento) che si sia autonomamente prodotto nella sua specifica sfera patrimoniale e non anche il danno(-evento) che invece, riguardando il patrimonio della società, mostra, rispetto alla posizione del singolo socio o terzo, conseguenze patrimoniali negative indirette, in quanto subordinate al depauperamento del patrimonio sociale.

Il danno prodottosi "direttamente" nel patrimonio del socio del terzo, quindi, è - e rimane - un danno-evento che si qualifica come risultato della condotta degli organi sociali, ma che si colloca integralmente al di fuori della lesione all'integrità del patrimonio sociale.

L'avverbio "direttamente"' realizza uno specifico criterio di selezione che, nell'ambito dell'insieme dei danni-evento che possono colpire la sfera patrimoniale del socio o del terzo, viene a limitare la risarcibilità ai soli danni che abbiano inciso direttamente ed autonomamente sul patrimonio del danneggiato, escludendo invece quelli che hanno interessato direttamente il patrimonio sociale e solo in subordine quello di soci o terzi, costituendo in questo caso un riflesso della lesione all'integrità del patrimonio sociale.

Lo specifico danno-evento "diretto" di cui all'art. 2395 c.c. costruirà la pretesa risarcitoria del socio o terzo quando sussistono uno o più concreti riflessi patrimoniali lesivi che siano "conseguenza immediata e diretta" (danno-conseguenza) del danno- evento, ma che - si ripete - in tanto potranno essere valutati – in quanto derivanti da un danno-evento che abbia interessato "direttamente" il socio o il terzo, operando la regola di cui all'art. 1223 c.c. sul piano della mera determinazione quantitativa dei danni.

Riepilogando, quindi, gli ermellini ribadiscono il principio per cui l'azione individuale di responsabilità, ai sensi dell'art. 2395 c.c. necessita che il comportamento doloso o colposo dell'amministratore - posto in essere tanto nell'esercizio dell'ufficio quanto al di fuori delle correlate incombenze - abbia determinato un danno diretto ed autonomo sul patrimonio del socio o del terzo, risultando conseguentemente questi ultimi legittimati, anche dopo il fallimento della società, all'esperimento dell'azione di natura aquiliana per ottenere il risarcimento dei danni subiti nella propria sfera patrimoniale, solo quando il nocumento riguardi direttamente detta sfera e non quando lo stesso costituisca un mero riflesso del pregiudizio che abbia invece interessato il patrimonio sociale.

 

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