Se l’amministratore non chiede il compenso, non significa che vi abbia rinunciato. La rinuncia al compenso laddove tacita, deve infatti potersi dedurre da un comportamento inequivocabile da cui emerga l’effettiva e chiara volontà abdicativa dell’amministratore.
Così ha deciso la Suprema Corte di Cassazione che, con l’ordinanza 3657 di ieri, 13 febbraio, ha accolto il ricorso dell’amministratore di una società per azioni al quale non era stato pagato il compenso per il ruolo di amministratore ricoperto nella società, desumendo la sua intenzione di voler prestare gratuitamente la propria opera, dal fatto che non avesse mai chiesto il compenso, uniformandosi tacitamente alla volontà degli altri amministratori.
Nella propria decisione, evidentemente contraria a quella dei giudici di merito, la Cassazione ha rammentato il valore del silenzio nel rapporto negoziale, precisando che perché lo stesso assuma valore, occorre o che la comunione d’intenti o la buona fede, venutisi a creare tra le parti, prescrivano l’onere o il dovere di parlare o che, in base ad un momento storico sociale, avuto riguardo alla qualità delle parti e alle loro relazioni di affari, il tacere di una possa intendersi come partecipazione alla volontà dell’altra (la più recente per tutte Cass. n. 10533/2014); allo stesso modo, la rinuncia silente deve potersi evincere da un comportamento concludente del soggetto che riveli inequivocabilmente la sua definitiva e dismissiva volontà di rinuncia al proprio diritto. Il silenzio o l’inerzia, salvo il caso del creditore su cui pesa l’onere di rendere una dichiarazione rivolta alla protezione del suo diritto, non possono essere infatti interpretati quale manifestazione tacita alla rinuncia al diritto di credito che non può mai essere oggetto di presunzioni (Cass. N. 2339/2018 e Cass. N. 8891/1999).
Spostando tale interpretazione nel contesto del compenso dell’amministratore, la Corte ricorda un suo precedente in cui era stato già chiarito il fatto che la rinuncia all’emolumento da parte dell’amministratore, se tacita, deve trarsi da un comportamento concludente che riveli chiaramente il suo intento abdicativo, non essendo sufficiente il mero silenzio o l’inerzia (Cass. N. 24139/2018).
Nel caso odierno, la Corte d’appello aveva dato torto all’amministratore ricorrente, traendo la sua volontà di rinunciare al compenso dalla mancata richiesta dello stesso, ritenendo che l’amministratore avesse passivamente uniformato la propria volontà a quella degli altri amministratori della società, i quali avevano adottato lo stesso comportamento. Tuttavia, i giudici di merito, in tal modo, avevano spiegato unicamente la condotta omissiva dell’amministratore, senza chiarire in base a quale logica tale contegno poteva essere innalzato a manifestazione della volontà negoziale, considerando che l’inerzia dell’amministratore non era accompagnata da comportamenti esteriori dai quali potersi trarre l’effettiva volontà di rinunciare al proprio diritto al compenso, posto che l’inoperosità non vale ad essere considerata quale manifestazione di volontà tacita.
Infatti, come sottolineato dai giudici di legittimità, è vero che il silenzio può essere rilevante giuridicamente, ma solo in presenza di determinati fatti o situazioni in cui la condotta inerte del soggetto assume un significato ben preciso. In tali ipotesi, le deduzioni danno valore al silenzio circostanziato, ma né l’autore del contegno omissivo né altri soggetti interessati possono ignorare il valore dell’inerzia cui va assegnato, in tali circostanze, il significato di comportamento concludente.
Diversa è invece la situazione quando si è davanti “ad una mera inattività, o ad un silenzio puro e semplice, una tale condotta è priva di significato giuridico, proprio in quanto ad essa non può attribuirsi un significato negoziale; il detto contegno di inerzia non giustifica quindi l’affidamento quanto alla venuta ad esistenza del negozio e per riflesso non onera chi lo tiene di valutare l’ipotetica impegnatività del comportamento tenuto”.
La Cassazione conclude, dunque, esprimendo un principio di diritto in base al quale la rinuncia al compenso da parte dell’amministratore può manifestarsi con un comportamento concludente del titolare che manifesti in modo univoco la sua volontà abdicativa del relativo diritto, a tal fine è pertanto necessario che l’atto abdicativo si deduca non dalla mancata richiesta dell’emolumento, quali che ne siano le motivazioni, ma da situazioni esteriori che attribuiscano un preciso significato negoziale all’atteggiamento adottato.