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Illegittimo il licenziamento perché parlare male del capo in una chat privata su un social network non costituisce diffamazione

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Illegittimo il licenziamento perché parlare male del capo in una chat privata su un social network non costituisce diffamazione

venerdì, 14 settembre 2018

La Corte di Cassazione con ordinanza n. 21965 del 10/09/2018 ha confermato la decisione della Corte d’appello di Lecce che, ribaltando la decisione dei giudici di prime cure, aveva ritenuto illegittimo il licenziamento del dipendente di una società, licenziato a causa della propria condotta diffamatoria nei confronti dell’a.d. della società sua datrice di lavoro, in quanto in una conversazione intrattenuta con alcuni membri del gruppo privato costituito dalle RSA della società aperto su Facebook, aveva utilizzato espressioni poco felici nei confronti dell’amministratore e della società stessa.

I giudici della Cassazione, nella loro decisione, hanno ritenuto che la condotta del dipendente non poteva configurare l’ipotesi del reato di diffamazione, in considerazione del fatto che la chat sul social network, in cui avvenne la conversazione oggetto di causa, era composta unicamente da iscritti al sindacato aziendale; si trattava dunque di un gruppo chiuso e privato.

Le argomentazioni della Corte

Perché si configuri la fattispecie della diffamazione è necessaria la lesione della reputazione, intesa come l’opinione positiva che i consociati hanno di una determinata persona, dal punto di vista etico e sociale.
La lesione della reputazione, essendo connessa al contesto sociale di riferimento, presuppone e necessita della comunicazione con più persone, cioè la presa di contatto dell'autore con soggetti diversi dalla persona offesa per renderli edotti e partecipi dei fatti lesivi della reputazione di quest'ultimo; ad ogni modo, dicono i giudici, nel caso in cui la comunicazione con più persone avvenga in un ambito privato e circoscritto, come all’interno di una cerchia di persone ben definita, non solo vi è un interesse opposto alla diffusione, anche colposa, dei fatti e delle notizie oggetto di comunicazione, ma si pretende da tutte le persone che partecipano alla conversazione, la tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni stesse che si presume restino chiuse nel circolo di quelle stesse persone.

La tutela della segretezza, ricordano gli ermellini, implica:

  • che i destinatari siano ben definiti;
  • la volontà del mittente di estromettere terzi dal raggio di conoscibilità del messaggio;
  • l'uso di uno strumento che manifesti il carattere di segretezza o riservatezza della comunicazione.
     

La necessità di tutela della segretezza delle forme di comunicazione privata o chiusa, secondo le argomentazioni della Corte, vieta l’accesso di estranei al contenuto delle conversazioni, la loro rivelazione e utilizzabilità, in qualsiasi forma, tanto che la violazione della corrispondenza, la rivelazione del contenuto della stessa e di accesso abusivo a sistemi informatici, sono condotte penalmente punite dall’ordinamento (cfr. artt. 616 e 617 c.p.).
Per quanto concerne l’utilizzo dello strumento informatico nella comunicazione, occorre ricordare la sentenza della Corte Costituzionale n. 20 del 2017 in cui la Corte Cost. ha stabilito che il diritto tutelato dall’art. 15 della Costituzione ovvero “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione”, “comprende tanto la corrispondenza quanto le altre forme di comunicazione, incluse quelle telefoniche, elettroniche, informatiche, tra presenti o effettuate con altri mezzi resi disponibili dallo sviluppo della tecnologia”.

Tornando al caso di specie, a parere dei giudici di legittimità, la conversazione tra gli iscritti al sindacato era da essi stessi intesa e voluta come privata e riservata, ragion per cui uno sfogo in una chat ad accesso limitato, che garantisce – anche tecnicamente - l’impossibilità che quanto detto in quella sede possa essere trasferito a terzi estranei al gruppo (tanto che nel caso trattato la diffusione all’esterno del contenuto della conversazione era avvenuto a causa di un anonimo), induce ad escludere qualsiasi volontà o valida modalità di diffusione diffamatoria.

Mancherebbero nella condotta narrata gli elementi soggettivo e oggettivo necessari perché si configuri l’ipotesi della diffamazione.


A parere di chi scrive, il discrimine tra determinatezza e indeterminatezza dei soggetti cui è comunicato il messaggio diffamatorio incide sull’ambito di applicabilità (o meno) della forma aggravata del reato di diffamazione di cui all’art. 595 c.p. comma 3 e non sulla configurazione del reato di diffamazione di per sé che si realizza anche se il messaggio viene comunicato a più soggetti ben definiti (si veda per un maggior approfondimento sul tema diffamazione aggravata su Facebook la sentenza della Cassazione n. 24431/2015).

Se è vero, infatti, che le frasi ingiuriose contro Sempronio scritte da Tizio messaggiando via Whatsapp con Caio - per restare in tema di strumenti informatici – non costituiscono diffamazione anche se sono comunicate a terzi contro la volontà di Tizio, nel caso di specie i destinatari dei messaggi ingiuriosi contro il datore di lavoro erano contemporaneamente, sebbene soggetti ben definiti, più di due persone.

L'odierna sentenza peraltro modifica, non poco, l’orientamento della Corte che si rileva in un’altra recente pronuncia di legittimità sul tema, in cui la stessa Corte aveva sottolineato che "il reato di diffamazione non richiede il dolo specifico, essendo sufficiente ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo della fattispecie la consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell’altrui reputazione e la volontà che la frase venga a conoscenza di più persone, anche soltanto due (…)” (sentenza Cass. n. 16712 del 16 aprile 2014).
Resta il fatto che nel caso di cui si discorre, argomentando diversamente, la Cassazione ha invece ritenuto che il comportamento del lavoratore che parla male del datore di lavoro nell’ambito di una chat privata online, con un numero determinato di persone non configura diffamazione, apparendo piuttosto riconducibile alla libertà, costituzionalmente garantita, di comunicare in maniera riservata le proprie opinioni; non essendo il comportamento del lavoratore illecito, pertanto il suo licenziamento risulta illegittimo per assenza di giusta causa.

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