L’indimenticabile giurista Michele Costantino, appassionato studioso delle tematiche condominiali, amava spesso dire ai propri studenti che «il tempo del diritto è più lungo del tempo dei giuristi» e che le teorie più ardite possono anche affermarsi e dare un pò di notorietà per alcuni anni ma sono destinate ad essere repentinamente dimenticate assieme ai loro ideatori. Questo ammonimento dell’illustre civilista torna alla mente leggendo i principi e gli itinerari motivazionali delle pronunce gemelle in epigrafe indicate le quali, peraltro, non mancano di evidenziare (con obiter dicta più che opportuni), che la violazione della norma imperativa determina non soltanto la nullità della deliberazione di nomina - da qualificarsi, ex art. 1324 c.c., atto unilaterale tra vivi a contenuto patrimoniale - ma anche del connesso «contratto di amministrazione condominiale» (che le parti stipulano secondo l’iter procedimentale dell’art. 1326 c.c.)[1], con l’ineluttabile conseguenza che il soggetto nominato non ha «azione per il pagamento del compenso corrispondente all'attività illegalmente prestata» (e questa è, a ben vedere, la vera garanzia di effettività del «rimedio negoziale» della «nullità» giacché l’amministratore inadempiente rischia davvero di «lavorare a vuoto» o di dover restituire quanto percepito a titolo di compenso)[2].
Nel caso trattato da Cass., II, sent., 31 ottobre 2024, n. 28195 un condòmino impugnava, dinanzi al Tribunale competente, una deliberazione assembleare deducendone la nullità in quanto l’amministratrice del condomìnio nominata dall’assemblea (una società di capitali)[3], aveva affidato la gestione dello stabile a due propri dipendenti totalmente privi (al momento della formale nomina della società) dei requisiti di cui all’art. 71 bis disp. att. c.c.. Risultava, così, violato l’art. 25 della legge 11 dicembre 2012, n. 220 che - dopo aver prescritto che possono svolgere l’incarico anche le società di cui al Titolo quinto del Libro quinto del codice ...