1.- In un recente scritto del Presidente Triola (R. Triola, Osservazioni in tema di limiti al godimento degli immobili in comproprietà, in Immobili & proprietà 2024, n. 7, 454), l’Autore ha riproposto il dubbio interpretativo sul modo di operare del primo comma dell’art. 1102 cod. civ. con riguardo all’uso delle parti comuni dell’edificio condominiale. In particolare, l’interrogativo è se il divieto posto da tale norma ai condomini di “servirsi della cosa comune” in maniera da impedire agli “altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto”, comporti che il godimento di ciascuno vada rapportato alla rispettiva quota, o debba, piuttosto, essere egualitario. Il pregevole scritto di Triola conclude sul punto che “[è] comunque pacifico che è ammesso un godimento più intenso da parte di un comproprietario rispetto agli altri”.
2.- Sembra necessario pervenire ad un impiego dell’art. 1102 cod. civ. nell’ambito del condominio edilizio in modo non pedissequamente coincidente con quanto si fa in tema di comunione c.d. ordinaria, considerando che l’art. 1139 cod. civ. postula l’applicazione al condominio delle norme sulla comunione in generale soltanto per quanto non espressamente previsto negli artt. 1117 e ss. cod. civ.
L’art. 1101 cod. civ., dettato per la comunione, parte da una presunzione di eguaglianza delle quote, con corrispondente proporzione tra la quota dei vantaggi (e dei pesi) e la quota dominica. Ognuno dei comproprietari del patrimonio soggettivamente collettivo mantiene, dunque, una posizione autonoma: ciascuno concorre nei vantaggi e nei pesi, ciascuno può servirsi del bene (art. 1102 cod. civ.), ciascuno può disporre del proprio diritto (art. 1103 cod. civ.) e può chiedere lo scioglimento della comunione (art. 1111 cod. civ.). La “quota” del comproprietario costituisce, quindi, un limite non quantitativo, ma funzionale del diritto di partecipazione alla comunione.
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