Nel caso di specie, la lavoratrice contestava la legittimità della Cassa Integrazione (CIGO febbraio 2009-luglio 2010; CIG in deroga, dal luglio 2010 all'aprile 2011 e CIGS dal maggio 2011), per l’irregolarità della rotazione adottata, e il Tribunale di Milano accoglieva il ricorso, condannando la società al pagamento delle somme corrispondenti alla differenza fra quanto spettante a titolo di retribuzioni per i periodi di sospensione, e quanto percepito nei medesimi periodi a titolo di indennità dall’Inps. Il giudice di primo grado accertava anche il demansionamento patito dalla lavoratrice nei periodi di lavoro prestato quando non si trovava collocata in Cassa, e condannava la società al risarcimento del danno alla professionalità della medesima.
Quest’ultima parte della decisione era riformata dalla Corte d’Appello di Milano, che condannava la lavoratrice a restituire le somma percepite a titolo risarcitorio.
La dipendente azionava quindi il giudizio di Cassazione, censurando la decisione della Corte territoriale, che da un canto aveva accertato che nei periodi di rotazione la prima non aveva ricevuto l'assegnazione di alcuna mansione perché le attività dalla stessa in precedenza svolte erano state già redistribuite fra i colleghi, ponendo tale accertamento a fondamento della pronuncia di illegittimità della collocazione in Cassa Integrazione; dall'altro, non aveva considerato il fatto quale prova della dequalificazione professionale risentita.
L’apparente contraddittorietà dell’argomentazione operata dalla Corte d’appello milanese fondava sul rilievo che la privazione di mansioni era stata circoscritta a limitati periodi e risultava comunque "inserita nello specifico contesto dell'illegittima collocazione della lavoratrice in cassa integrazione, già sanzionata mediante la condanna al pagamento delle differenze retributive fra il relativo trattamento e le retribuzioni maturate nei rispettivi periodi".
In verità, come osservava la dipendente, la totale accertata privazione di mansioni aveva concretizzato la violazione di due distinti precetti normativi:
1- l'inosservanza della normativa contrattuale collettiva, relativa ai criteri di rotazione in CIGO, CIGS e CIG in deroga, con diritto alla differenza tra l'indennizzo percepito per effetto della sospensione e quanto la dipendente avrebbe percepito se avesse prestato la propria attività lavorativa;
2- la violazione degli artt. 2103 c.c. e 13 della L. n. 300 del 1970, che notoriamente comporta la risarcibilità del danno da demansionamento, valutabile anche in via presuntiva ed equitativa, laddove sia dimostrato che il comportamento datoriale sia idoneo a frustrare la specifica professionalità del prestatore d’opera.
Ebbene, la sentenza di Cassazione in commento richiama, nella parte motivazionale, un interessante excursus sulla disciplina del rapporto di lavoro, che a suo dire riserva un reticolato di disposizioni specifiche volte ad assicurare una ampia e speciale tutela alla "persona" del lavoratore, conforme al riconoscimento espresso dei diritti a copertura costituzionale (artt. 32 e 37 Cost.).
Detta tutela si rinviene - oltre che in un corpus di disposizioni processuali (le ordinanze anticipatorie di cui all'art. 423 c.p.c., l'esecutorietà della sentenza di primo grado ex art. 431 c.p.c., la rivalutazione dei crediti di lavoro ex art. 429 c.p.c., u.c.), in numerose disposizioni di diritto sostanziale, nel cui ambito vanno incluse, a titolo esemplificativo, gli artt. 1, 4, 5, 8, 9 ecc. dello Statuto dei lavoratori e il disposto dell'art. 2087 c.c., secondo cui "l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio della impresa le misura che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro".
In siffatto contesto si è quindi fondatamente ritenuto che la modifica in peius delle mansioni ascritte al lavoratore sia potenzialmente idonea a determinare un pregiudizio a beni di natura immateriale, anche ulteriori rispetto alla salute, atteso che, nella disciplina del rapporto di lavoro, numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata del lavoratore, con la configurabilità di un danno non patrimoniale risarcibile ogni qual volta vengano violati.
Ebbene, l'esigenza di accertare se, in concreto, il contratto tenda alla realizzazione anche di interessi non patrimoniali, eventualmente presidiati da diritti inviolabili della persona, viene meno nel caso in cui l'inserimento di interessi siffatti nel rapporto sia opera della legge, come appunto nel caso del contratto di lavoro. Per tale ragione, secondo la Suprema Corte, il rapporto lavorativo rappresenta un ambito contrattuale in cui la risarcibilità dei danni non patrimoniali è legislativamente prevista, perché la dignità personale del lavoratore, in riferimento agli artt. 2, 4 e 32 Cost., viene “configurata come diritto inviolabile, la cui lesione si risolve in pregiudizio alla professionalità da dequalificazione, che si traduce nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità nell'ambito della formazione sociale costituita dall'impresa”.
L'assegnazione a mansioni inferiori pacificamente rappresenta fatto potenzialmente idoneo a produrre conseguenze dannose, non solo di natura patrimoniale (mancata acquisizione di un maggior saper fare, pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali[1]), ma anche di natura non patrimoniale: il diritto fondamentale del lavoratore al pieno ed effettivo dispiegamento della sua professionalità, mediante il compimento delle mansioni che gli competono, deriva dal riconoscimento costituzionale della personalità morale e della dignità.
Gli approdi ai quali perveniva la Corte di merito che – lo ricordiamo – fondavano sulla esiguità dei periodi di inattività e sulla circostanza che la riconosciuta indennità per violazione delle norme in tema di rotazione CIGS, avrebbe assorbito l'eventuale indennizzo relativo alla dequalificazione professionale, non sono pertanto condivisi dalla Cassazione. Il principio espresso dalla Corte d’appello, infatti, “sovrappone piani risarcitori concettualmente distinti perché riconducibili alla violazione di precetti normativi distinti”: da un lato quelli attinenti all'osservanza dei criteri di rotazione durante la Cassa Integrazione, dall’altro quelli consacrati dall'art. 2103 c.c. nella versione di testo anteriore alla novella operata con il Jobs Act.
Anche i parametri del ristoro risarcitorio appaiono diversi, posto che la non patrimonialità del diritto leso impone una valutazione equitativa, anche mediante il ricorso alla prova presuntiva, che può persino costituire l'unica fonte di convincimento del giudice[2].
Chiarita la potenzialità lesiva dell'assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori ad opera del datore di lavoro, si è precisato che qualora questi lasci in condizione di inattività il dipendente non solo viola l'art. 2103 c.c., ma lede il fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell'immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza; tale comportamento comporta la lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo[3] e tale lesione produce un danno suscettibile di valutazione e risarcimento anche in via equitativa.
A riguardo, in un’altra decisione recente[4] la Suprema Corte aveva ravvisato una violazione dell'art. 2087 c.c., con conseguente obbligo di risarcimento del danno biologico determinabile in relazione alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale nella condotta tenuta dal datore di lavoro nei confronti di una lavoratrice alla quale, dopo il rientro dalla cassa integrazione, non erano stati, fra l'altro, assegnati compiti da svolgere.