La dottrina precedente alla riforma del condominio (legge n. 220/2012) affermava che l’amministratore violava il principio di trasparenza dei conti condominiali attraverso l’utilizzo del conto corrente personale per farvi confluire tutti i conti, in modo da creare una confusione contabile la quale rendeva impossibile la ricostruzione delle poste di ogni singolo condominio. Tale condotta, oltre ad avere evidenti ricadute fiscali, perché non è distinguibile il patrimonio personale dell’amministratore dai conti condominiali amministrati, viola il principio di diligenza del mandatario (ovvero l’amministratore condominiale) il quale, per gli artt. 1710 e 1713 c.c., deve eseguire il contratto con la diligenza del buon padre di famiglia e deve rendere conto del suo operato al mandante e deve rimettere al condominio tutto ciò che ha ricevuto a causa del mandato. L’art. 1129 c.c., riformato dalla legge n. 220/2012, obbliga l’amministratore di fare transitare le somme ricevute a qualsiasi titolo dai condomini o da terzi e quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condomino su di un conto corrente intestato al condominio, di cui ciascun condòmino può chiedere di prenderne visione di estrarre copia dei relativi documenti. La commistione tra i conti personali dell’amministratore e quelli dei condomini comporta per il primo una responsabilità penale.
È il caso trattato dalla Corte di Cassazione (Sent. n. 17471/2019) che ha dichiarato inammissibile il ricorso di un amministratore condominiale avverso una sentenza la quale lo aveva condannato per i reati di appropriazione indebita e di truffa commessi in danno di alcuni condòmini dallo stesso amministrati. La Corte di Cassazione (anche se dichiarava prescritti i reati, pur confermando la condanna al risarcimento del danno) confermava il giudizio di condanna per detti reati, poiché l’amministratore si appropriava delle somme di ...