Aspetti generali
Il generale principio della ripetizione dell’indebito, ossia del diritto ad avere la restituzione di ciò che si è pagato in assenza di un dovere giuridico di pagare, deve seguire in materia tributaria delle disposizioni specifiche che prevedono la presentazione di un’istanza di parte.
Come precisato dalla Cassazione nella sentenza dell'8 aprile 2015 n. 7069, il pagamento dell’indebito è l'esecuzione di una prestazione non dovuta. L’indebito è oggettivo quando l'adempiente esegue una prestazione in base a un titolo inesistente (articolo 2033 del codice civile), soggettivo quando si esegue un debito altrui nell'erronea credenza di essere il debitore. La nozione di indebito tributario configura una situazione che trova la propria causa nel pagamento di un tributo in misura superiore rispetto a quella dovuta o inesistente.
Nell'ordinamento tributario italiano, la presenza di un regime speciale - che prevede la presentazione di un’istanza di parte, da presentare a pena di decadenza nel termine normativamente previsto – preclude in linea di principio l'applicazione della disciplina prevista per l'indebito di diritto comune (Cassazione, sentenza n. 11456/2011).
I rimborsi nel D.P.R. 602
Secondo le previsioni dell’art. 38 del D.P.R. 29.9.1973, n. 602, i soggetti che abbiano effettuato versamenti diretti possono presentare all’Intendente di Finanza (attualmente, alla Direzione Regionale dell’Agenzia delle Entrate) un’istanza di rimborso finalizzata a rimuovere le conseguenze, pregiudizievoli per il contribuente, di:
- errori materiali;
- duplicazione del versamento;
- inesistenza totale o parziale del relativo obbligo.
Nel caso di somme soggette a ritenuta, la medesima istanza può essere presentata dal percipiente.
In ogni caso, il termine decadenziale per l’esercizio del diritto è di 48 mesi dalla data di effettuazione del versamento o della ritenuta. Se però l'obbligazione tributaria è inesistente fin dal momento del versamento, avvenuto per errore materiale, duplicazione dell'imposta od originaria inesistenza totale o parziale della pretesa impositiva, il termine decorre dalla data del versamento stesso, anche se avvenuto a titolo di acconto.
La differente ipotesi del rimborso d’ufficio, disciplinata dall’art. 41 del D.P.R. 29.9.1973, n. 602, ricorre quando gli errori materiali o le duplicazioni sono dovute all'ufficio fiscale, e comporta, per lo stesso, l’obbligo di effettuare il rimborso delle maggiori somme iscritte a ruolo.
La norma si applica anche:
- per il rimborso della differenza, quando l'ammontare della ritenuta d’acconto effettuata dai sostituti d’imposta supera quello dell'imposta liquidata in base alla dichiarazione ai sensi dell'art. 36–bis, D.P.R. 29.9.1973, n. 600;
- per i crediti d’imposta derivanti dalla liquidazione delle dichiarazioni effettuata ai sensi dello stesso art. 36–bis.
Le disposizioni del richiamato art. 41 valgono per il solo comparto delle imposte sui redditi.
Il rimborso anomalo
Il c.d. rimborso anomalo, previsto dall’art. 21 del D.Lgs. n. 546 del 1992, consente ai contribuenti di impugnare aventi la commissione tributaria provinciale “il rifiuto espresso o tacito della restituzione di tributi, sanzioni pecuniarie ed interessi o altri accessori non dovuti”, come consentito dall’articolo 19, comma 1, lettera g), del predetto D.Lgs. n. 546 del 1992.
Secondo la Corte di Cassazione (sentenze n. 6331 del 10.3.2008 e n. 16023 dell'8.7.2009), le possibili situazioni di doppia imposizione, in particolare conseguenti a rettifiche del fisco fondate sulla competenza dei componenti di reddito, possono essere evitate in base ai principi generali, producendo istanza di rimborso e impugnando il conseguente diniego o il silenzio – rifiuto (utilizzando quindi questa procedura residuale).
Ai sensi del comma 2 del richiamato art. 21, tale ricorso “può essere proposto dopo il novantesimo giorno dalla domanda di restituzione presentata entro i termini previsti da ciascuna legge d'imposta e fino a quando il diritto alla restituzione non è prescritto. La domanda di restituzione, in mancanza di disposizioni specifiche, non può essere presentata dopo due anni dal pagamento, ovvero, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione”.
Rimborso e rettifica
Il rimborso può essere richiesto a seguito della presentazione di una dichiarazione integrativa a favore, nel caso in cui siano state dichiarate e versate imposte in eccesso rispetto a quanto dovuto.
La rettifica della dichiarazione può poi essere funzionale anche al ripristino ex post di una situazione che non aveva generato alcun obbligo di versamento (in particolare, alla corretta rappresentazione di componenti reddituali negativi).
La sentenza della Cassazione n. 6253 del 20.4.2012 ha confermato che:
- è diritto del contribuente di modificare ex post il dichiarato, e tale facoltà subisce il processo di evoluzione normativa sopra illustrato;
- è altresì diritto del contribuente di ripetere, attraverso la procedura di rimborso, quanto versato in eccesso a fisco (il contribuente è titolare di una generale facoltà di emendare i propri errori mediante dichiarazione integrativa).
L’integrativa lunga
A seguito delle riferite innovazioni del 2016 riguardanti la dichiarazione integrativa a favore, tale strumento di intervento di iniziativa del contribuente sembra slegarsi dall’originaria funzione per divenire un meccanismo ordinario di revisione del dichiarato, a prescindere dagli eventuali errori commessi.
L’art. 5 del D.L. 22.10.2016, n. 193, convertito con modificazioni dalla L. 1.12.2016, n. 225, ha previsto che le dichiarazioni fiscali possono essere integrate “per correggere errori od omissioni, compresi quelli che abbiano determinato l'indicazione di un maggiore o di un minore reddito o, comunque, di un maggiore o di un minore debito d'imposta ovvero di un maggiore o di un minore credito, mediante successiva dichiarazione da presentare (…), utilizzando modelli conformi a quelli approvati per il periodo d'imposta cui si riferisce la dichiarazione, non oltre i termini stabiliti” per l’attività di accertamento.
Per effetto di tale intervento normativo sull’art. 2, comma 8, del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, i tempi per la presentazione della dichiarazione integrativa a favore si sono allineati (coerentemente con quanto già affermato dalla giurisprudenza: cfr. Cass., SS.UU., sentenza n. 13378 del 2016) a quelli concessi per la dichiarazione integrativa a sfavore (coincidendo con i termini concessi all’Agenzia delle Entrate per compiere gli accertamenti).
In tutti i casi in cui la dichiarazione integrativa a favore sia presentata oltre il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo di imposta successivo, il credito di imposta può essere utilizzato in compensazione per eseguire il versamento di debiti maturati a partire dal periodo successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione integrativa. Resta ferma l'applicazione delle sanzioni ridotte.
La possibilità di utilizzare il credito in compensazione si aggiunge a quella di richiedere il rimborso del credito (chiaramente, da preferirsi se le dichiarazioni successive non avranno capienza di imposte da compensare).
L’overruling comunitario
Il diritto al rimborso può essere originato da una sentenza della Corte di Giustizia Europea, con la quale è stata dichiarata l’incompatibilità della norma impositiva interna con una direttiva comunitaria. In questo caso, il contribuente “scopre” che la sua obbligazione tributaria doveva essere inferiore, e ha il problema di recuperare quanto versato in più in esecuzione delle norme dichiarate incompatibili.
In questo caso occorre verificare se il dies a quo del termine di 48 mesi per la presentazione dell’istanza di rimborso coincida con la data dell’indebito versamento oppure con quella in cui è stata emessa la sentenza dichiarativa del contrasto della norma interna la disposizione comunitaria.
Le SSUU della Corte di Cassazione (sentenza n. 13676 del 16.6.2014) hanno chiarito che la declaratoria di incompatibilità comunitaria da parte della CGCE non interferisce con le regole generali, le quali fanno decorrere il termine decadenziale dalla data del pagamento.
I rimborsi IVA
La disciplina del rimborso dell’IVA – ex art. 30. D.P.R. 22.10.1972, n. 633 – si lega chiaramente alla suscettibilità delle operazioni effettuate dal soggetto passivo a dar luogo a detrazione, generando l’“eccesso detraibile” che può venire riconosciuto, appunto, tramite il rimborso in sede di dichiarazione annuale.
Per stabilire, dunque, se una determinata operazione imponibile conferisca o meno il diritto al rimborso dell’IVA dovuta a monte, occorre valutare se l’operazione passiva sia collegata da un nesso di inerenza all’attività esercitata dal soggetto passivo, alla luce dei principi che reggono in Italia l’applicazione dell’imposta e con riguardo ai requisiti soggettivi, oggettivi e territoriali.
Il diritto al rimborso dell’IVA – ex art. 30, D.P.R. 633/1972 - può essere esercitato solamente in presenza di determinate condizioni, in difetto delle quali i contribuenti sono “abilitati” solamente a riportare a nuovo il credito IVA per scomputarlo nell'esercizio successivo.
Una specifica eccezione è prevista – con la spettanza comunque del diritto al rimborso – se il contribuente ha cessato l'attività nel corso dell'anno.
I requisiti previsti sono di seguito indicati:
- requisito oggettivo: il credito IVA deve ammontare almeno a € 2582,28;
- requisito soggettivo: la società deve (alternativamente):
- esercitare in via esclusiva o prevalente attività che comportino l'effettuazione di operazioni soggette ad IVA con aliquote inferiori a quelle dell'imposta relativa agli acquisti ed alle importazioni;
- effettuare operazioni non imponibili per un ammontare superiore al 25% dell'ammontare complessivo di tutte le operazioni effettuate;
- aver acquistato o importato beni ammortizzabili (nonché beni e servizi per studi e ricerche), limitatamente alla relativa imposta;
- effettuare prevalentemente operazioni non soggette ad IVA a norma dell'art. 7, D.P.R. 633/1972;
aver nominato un rappresentante fiscale, secondo quanto previsto dall’art. 17, secondo comma, D.P.R. n. 633/1972.
Al di fuori dei casi indicati, la richiesta di rimborso può essere validamente effettuata se dalle dichiarazioni dei due anni precedenti risultano eccedenze a favore del contribuente, nei limiti dell'ammontare del credito risultante dalla dichiarazione annuale e, comunque, per un importo non superiore alla minore delle eccedenze (art. 30, quarto comma, D.P.R. n. 633/1972).
Le sentenze tributarie
Nel “videoforum” del 24.5.2018, curato da “Il Sole 24 ore”, è stato chiesto all’Agenzia delle Entrate di chiarire le modalità procedurali che il contribuente deve eseguire in pendenza di una sentenza favorevole non definitiva per chiedere il rimborso di:
- spese di lite cui è stata condannata l'Agenzia;
- imposte per le quali il giudice ha affermato la debenza in favore del contribuente (ad esempio rimborso dell’IRAP versata in assenza di presupposti);
- somme precedentemente versate dal contribuente a seguito di iscrizione provvisoria in pendenza di giudizio (con successiva decisione favorevole al contribuente).
Come precisato dall’Agenzia, per effetto della riforma del processo tributario operata dal D.Lgs. n. 156/2015 le sentenze emesse dalle commissioni tributarie sono immediatamente esecutive per tutte le parti in causa.
Nel caso in cui, a seguito di una sentenza favorevole, spetti al contribuente il rimborso di somme, sono previsti procedimenti diversi a seconda della tipologia della controversia instaurata.
In particolare:
- nel caso di sentenza favorevole al contribuente all'esito dell'impugnazione di un atto soggetto a riscossione (ad esempio attraverso iscrizione a ruolo o affidamento in carico all'agente della riscossione), trova applicazione l'art. 68, comma 2, del D.Lgs. n. 546/1992, ove è previsto (con disposizione immodificata) che “il tributo corrisposto in eccedenza rispetto a quanto statuito dalla sentenza della commissione tributaria provinciale, con i relativi interessi previsti dalle leggi fiscali, deve essere rimborsato d'ufficio entro 90 giorni dalla notificazione della sentenza”;
- nel caso della condanna dell'ufficio al rimborso di versamenti effettuati spontaneamente dal contribuente o al pagamento delle spese di lite, trova applicazione l'art. 69 del D.Lgs. n. 546/1992, che, oltre a disporre l'immediata esecutività delle sentenze di condanna al pagamento di somme in favore del contribuente, prevede (come si è visto) che il pagamento di somme di importo superiore a 10 mila euro, diverse dalle spese di lite, possa essere subordinato dal giudice, anche tenuto conto delle condizioni di solvibilità dell'istante, alla prestazione di idonea garanzia.
Per l'esecuzione delle predette sentenze, l’art. 69 assegna all'ufficio il termine di 90 giorni dalla notificazione della sentenza; nel caso in cui sia dovuta la garanzia, come riafferma l’Agenzia, il termine decorre dalla presentazione di quest'ultima.
Come chiarisce la circolare 29.12.2015, n. 38/E, “l'ufficio potrà comunque procedere all'erogazione tempestiva del rimborso, anche prima della prestazione della garanzia, ove abbia già deciso di prestare acquiescenza alla sentenza, al fine di evitare di sostenerne i costi”.
Secondo poi quanto affermato nella relazione illustrativa al D.Lgs. n. 156/2015, “il contribuente resterà libero di non chiedere l'immediata esecuzione della sentenza (qualora non intenda anticipare gli oneri della garanzia o anche solo per non dover rischiare di restituire le somme ottenute con gli interessi) e di preferire l'attesa di un giudicato che gli consentirà di ottenere quanto gli spetta, con gli interessi di legge medio tempore maturati, senza fornire alcuna garanzia”.
L’Agenzia ha puntualizzato che, anche in caso di applicabilità del menzionato art. 68, comma 2, l'esecuzione della sentenza deve essere effettuata nel suo complesso, ricomprendendo quanto dovuto per effetto dell’eventuale condanna dell'ufficio alle spese di giudizio.
Sono quindi immediatamente esecutive (spese di giudizio comprese) le sentenze di condanna al pagamento di somme in favore del contribuente e quelle emesse su ricorso avverso gli atti relativi alle operazioni catastali.
Le società di comodo
Particolarmente penalizzanti possono essere le conseguenze sull'IVA a credito maturata per le società che fossero ritenute di comodo [salva, però, la possibilità di esercitare lo specifico interpello probatorio, ai sensi dell’art. 11, comma 1, lett. b), della legge n. 212/2000].
Infatti, secondo il quarto comma dell'art. 30, per tali società l'eccedenza di credito risultante dalla dichiarazione presentata ai fini IVA non è ammessa al rimborso e non può essere compensata ai sensi dell'art. 17 del D.Lgs. 241/1997, né ceduta ai sensi dell'art. 5, comma 4-ter, del D.L. 14.3.1988, n. 70, convertito con modificazioni dalla legge 13.5.1988, n. 154.
Un'ulteriore penalizzazione è inoltre prevista nel caso in cui la società tre periodi d'imposta consecutivi non abbia effettuato “operazioni rilevanti ai fini dell'imposta sul valore aggiunto non inferiore all'importo che risulta dalla applicazione delle percentuali di cui al comma 1”: in tale ipotesi, infatti, l'eccedenza di credito non è neppure riportabile a scomputo dell'IVA a debito relativa ai successivi periodi d'imposta, e il credito viene perduto in via definitiva.
Secondo le indicazioni fornite dall'Agenzia delle Entrate nella circolare n. 11/E del 2007, per verificare l'eventuale mancato superamento del limite minimo per le operazioni rilevanti ai fini IVA “deve assumersi come totale delle operazioni effettuate ai fini IVA l'ammontare complessivo del volume d'affari determinato ai sensi dell'articolo 20 del D.P.R. n. 633 del 1972”. A tale riguardo, l'Agenzia ha espresso il parere “che costituisce presupposto necessario per l'applicazione della norma la circostanza che il soggetto non abbia superato, in nessuno dei tre menzionati periodi d'imposta consecutivi, il test di operatività di cui al comma 1”.
Va rammentato che l’art. 2, comma 36-decies, del D.L. n. 138/2011, modificato dall’articolo 18 del D.Lgs. n. 175/2014, ha ampliato l’ambito di applicazione della disciplina delle società non operative, includendovi anche le società in perdita sistematica, ovvero le società che, alternativamente:
- per 5 periodi di imposta consecutivi hanno dichiarato una perdita fiscale;
- hanno dichiarato per 4 anni una perdita fiscale e per un anno un reddito a quello minimo presunto in base all’art. 30, comma 3, della legge n. 724/1994.
Modalità operative
Se il contribuente ha fornito all’Agenzia delle Entrate le coordinate del suo conto corrente bancario o postale, il rimborso, qualunque sia l’importo, viene accreditato su quel conto.
A tal fine è necessario che il beneficiario del rimborso coincida con l’intestatario (o uno degli intestatari, in caso di conto corrente cointestato) del conto corrente. La richiesta di accredito può essere anche effettuata attraverso il canale Fisconline da chi è registrato ai servizi telematici dell’Agenzia.
Se non sono state fornite le coordinate del conto corrente bancario o postale, il rimborso viene erogato con modalità diverse a seconda della somma da riscuotere:
- fino a 999,99 euro, in contanti presso un ufficio postale;
- oltre 999,99 euro e fino a 51.645,69 euro, previo invito del contribuente a fornire le proprie coordinate bancarie a un ufficio postale (ovvero con l’emissione di un vaglia della Banca d’Italia);
- per gli importi superiori a 51.645,69 euro, esclusivamente tramite accredito su conto corrente bancario o postale.
La compensazione
Anziché richiedere il rimborso, i contribuenti hanno la possibilità di utilizzare l’istituto della compensazione ai sensi dell’art. 17 del D.Lgs. 9.7.1997, n. 241.
Il comma 1 di tale articolo stabilisce che i versamenti delle imposte sono eseguiti con eventuale compensazione dei crediti dello stesso periodo di imposta e nei confronti dei medesimi soggetti, risultanti dalle dichiarazioni e dalle denunce periodiche.
La compensazione deve essere effettuata entro la data di presentazione della dichiarazione successiva; la compensazione del credito annuale o relativo a periodi inferiori all'anno dell’IVA, per importi superiori a 5.000 euro annui, può essere effettuata a partire dal decimo giorno successivo a quello di presentazione della dichiarazione o dell'istanza da cui il credito emerge.
La compensazione può essere effettuata nel limite annuo, previsto dall'art. 34, comma 1, della legge 23.12.2000, n. 388, pari a 700.000 euro, elevato a 1.000.000 di euro per i subappaltatori edili (art. 35, comma 6-ter, D.L. n. 223/2006).
L'art. 1, comma 574, della legge 27.12.2013, n. 147, ha previsto l'obbligo di richiedere l'apposizione del visto di conformità sulla dichiarazione, da parte di un soggetto abilitato, per compensare i crediti superiori a 5.000 euro annui derivanti da:
- imposte sui redditi (IRPEF e IRES) e relative addizionali;
- IRAP;
- ritenute alla fonte;
- imposte sostitutive delle imposte sui redditi.
Rispetto al rimborso, la compensazione possiede l’innegabile vantaggio di operare immediatamente e senza la necessità di esperire una specifica procedura soggetto al vaglio dell’Agenzia. Come si è detto, però, occorre rispettare un limite massimo di ammontare.
È inoltre necessario apporre il visto di conformità al di sopra dei 5.000 euro (soglia che vale con riferimento a ciascuna tipologia di crediti emergenti in dichiarazione), ma solamente per la compensazione “orizzontale” o “esterna” tra tributi diversi e tra tributi e contributi, che avviene con il modello F24, e non anche per le compensazioni “verticali” o “interne” (che prevedono l’utilizzo del credito in compensazione con importi a debito della stessa imposta) (circolare dell’Agenzia delle Entrate 14.5.2014, n. 10/E).
Si osserva anche che l’indebita compensazione è una fattispecie penale tributaria punita ai sensi dell’art. 10-quater del D.Lgs. 10.3.2000, n. 74, il quale prevede che:
- è punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione crediti non spettanti, per un importo annuo superiore a 50.000 euro;
- è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione crediti inesistenti per un importo annuo superiore ai 50.000 euro.
In caso di indebita compensazione, il professionista “certificatore” che ha apposto il visto di conformità può essere considerato penalmente responsabile a titolo di concorso nel reato.