Primo passo: è irrilevante la natura giuridica della forma remunerativa?
È frequente trovare ragionamenti che si concentrano sulla valutazione comparata del percepito dall’amministratore teorici e assoluti, guidati unicamente dalla massimizzazione dell’efficacia.
La prima riflessione è che appare funzionalmente improbabile la conversione – ad esempio – dell’intero importo da compenso a dividendo.
È affermata infatti l’onerosità della carica di amministratore per la società (sia deliberata in forma fissa che in forma variabile), consistendo l’attività di amministratore in un’attività professionale nell’interesse altrui (della società) ed è principio generale, secondo le norme del mandato (art. 1709, c.c.), che egli debba percepire un compenso.
Inoltre, la determinazione del compenso è un chiaro atto di indirizzo dell’assemblea: mentre quello in misura fissa rispecchia un chiaro carattere retributivo per l’opera prestata dall’amministratore, quello in forma variabile un approccio evidentemente più legato agli effettivi risultati. Ma la sua totale assenza pone il legittimo dubbio di sostenibilità civilistica.
Cita l’art. 2389 del codice civile: “I compensi spettanti ai membri del consiglio di amministrazione e del comitato esecutivo sono stabiliti (1) all'atto della nomina o dall'assemblea [2364, n. 3].
Essi possono essere costituiti in tutto o in parte da partecipazioni agli utili [2431] o dall'attribuzione del diritto di sottoscrivere a prezzo predeterminato azioni di futura emissione. ….”
Ricordiamo che il compenso previsto per gli amministratori è considerato un ...