Gli aspetti fiscali dell’impresa familiare sono disciplinati dall’art. 5, comma 4, del T.U.I.R., sulla base del quale i redditi che derivano dalla stessa, limitatamente al 49% dell’ammontare, possono essere imputati a ciascun familiare, che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili.
Il reddito dell’impresa è quindi dichiarato dall’imprenditore, che è l’unico titolare dell’impresa, il quale può imputare parte del proprio reddito ai familiari per un ammontare non superiore al 49%. I redditi imputati a tali soggetti, in proporzione alle rispettive quote di partecipazione, non rappresentano costi nella determinazione del reddito dell’impresa familiare, bensì una ripartizione dell’utile dell’impresa stessa.
In relazione all’impresa familiare sono emerse varie problematiche, che sono spesso state oggetto di interpretazioni dell’Agenzia delle entrate.
Interpretazioni disomogenee
La rilevata disomogeneità tra la tesi dell’impresa “sostanzialmente” individuale e quella del “soggetto collettivo” conduce a due orientamenti opposti, al cui centro si trova il binomio dichiarazione accertamento. Ragione vorrebbe che la dichiarazione e l’accertamento “vedessero” una realtà unica (il reddito) in un modo unitario, cioè o come proprio del solo imprenditore (titolare), ovvero come imputato a più soggetti (imprenditore e collaboratori).
Per l’Amministrazione finanziaria (tra le altre, C.M. 29 luglio 1985, n. 27 e Circ. Agenzia delle entrate 29 aprile 2003, n. 23/E), in sede accertativa, l’impresa familiare va considerata alla stregua di una ditta individuale, per cui i maggiori redditi vengono imputati per intero all’imprenditore.
Questa tesi risulta più coerente con il diritto civile (art. 230-bis c.c.) che con il diritto tributario, ma risulta contrastante sia con l’art. 5 (commi 4 e 5) del T.U.I.R., sia con l’40 del D.P.R. n. 600/1973 (l’accertamento va fatto in unico atto con riferimento all’IRPEF dovuta ...