Per espressa previsione dell’art. 3, comma 1, del R.D. n. 1955 del 1923 sono considerati lavori domestici “tutte le prestazioni d’opera inerenti al normale funzionamento della vita interna di ogni famiglia o convivenza come: convitto, collegi, convento, caserma, stabilimento di pena”. Anche il contratto collettivo di settore fa riferimento, per l’ambito di applicazione, “ai prestatori di lavoro, anche di nazionalità non italiana o apolidi, comunque retribuiti, addetti al funzionamento della vita familiare e delle convivenze familiarmente strutturate, tenuto conto di alcune caratteristiche fondamentali del rapporto”.
Come noto, infatti, oltre al rapporto che intercorre tra il singolo/famiglia datore di lavoro e il lavoratore domestico, anche per le comunità familiari (religiose e non), per espressa previsione di cui all’art. 4 della legge n. 108/1990, le disposizioni stringenti sui licenziamenti individuali non trovano applicazione al lavoro domestico: "Fermo restando quanto previsto dall’art. 3, le disposizioni degli artt. 1 e 2 non trovano applicazione nei rapporti disciplinati dalla L. 2 aprile 1958, n. 339. La disciplina di cui all’art. 18 della L. 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’art. 1 della presente legge, non trova applicazione nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto ...".
Per le fattispecie lavorative rientrante nel settore del lavoro domestico, si tratta di un’esclusione motivata proprio sulla peculiarità insita nel lavoro domestico, sia in relazione alla natura delle prestazioni rese, sia con riferimento all’ambiente nel quale si svolge il rapporto di lavoro e, ancora, con riguardo alla profonda valenza che assume, in un simile contesto, il vincolo fiduciario intercorrente tra il datore di lavoro ed il lavoratore.
Infatti, il rapporto di lavoro domestico per la sua particolare ...